Pubblichiamo l’editoriale di Antonio Polito uscito con il Corriere della Sera del 20 aprile 2017
Otto ponti crollati in tre anni cominciano a essere una statistica. Una di quelle statistiche che ti tornano in mente mentre guidi in autostrada, e ti accorgi di guardare con apprensione alle decine di viadotti sotto i quali stai passando, a cui prima non avevi mai fatto caso. L’inquietudine è accresciuta dal fatto che di ogni incidente non si viene mai a sapere la causa. Errore umano, disastro colposo, cedimento strutturale, sono formule che si aggirano per qualche giorno sui giornali e poi affogano in processi lunghi una vita, di solito inconcludenti. Ai più sospettosi viene subito il dubbio che qualcuno abbia lucrato sul ferro, o fatto la cresta sul cemento. Oppure, più semplicemente, che non ci sono più i soldi per tenerli in piedi, tutti questi ponti e viadotti e cavalcavia che costituiscono l’apparato circolatorio della nazione (e che, pare, non siano neanche mai stati censiti, in attesa di un Catasto delle strade).
Altre statistiche infatti ci informano che da sette anni la spesa pubblica per investimenti diminuisce ogni anno. Nel conto economico 2016, per dire, sono mancati all’appello ben undici miliardi di spesa in conto capitale. Tutte le altre voci salgono, solo quella scende, perché è l’unica dove il governo può fare economia senza beccarsi uno sciopero o perdere i voti di una lobby. Secondo l’associazione degli asfaltatori, dal 2006 ad oggi sono stati risparmiati 40 miliardi in bitume, barriere o segnaletica (dato riportato da Il Mattino). L’Unione delle Province (esistono ancora) dice che gli investimenti per viabilità e sicurezza sulle strade provinciali è sceso da 7,3 euro a chilometro a 2,2 euro. I sindacati degli edili lombardi sostengono che i lavori di manutenzione si sono dimezzati negli ultimi dieci anni. Vuoi vedere, allora, che il cedimento strutturale sia una sindrome nazionale? Che la crisi stia erodendo, insieme alle basi sociali e politiche, anche il calcestruzzo su cui si regge l’Italia?
Si sa che la qualità della costruzione e della manutenzione delle opere pubbliche è uno dei principali indicatori del livello di civiltà raggiunto. Fu una straordinaria rete di strade e di acquedotti a fare grande l’Impero romano, e i secoli bui del Medioevo coincisero con la sua distruzione. La nostra inquietudine è dunque più che giustificata. Nelle società complesse tutta la nostra vita si basa su meccanismi di fiducia. Prendiamo l’aereo sicuri che stuoli di tecnici ne abbiano controllato ogni singolo pezzo prima di farlo alzare in volo. Ci sediamo su una Freccia che viaggia a più di trecento all’ora nella certezza che sui binari non troverà neanche un sasso. Prendiamo una curva in motorino presumendo che non si sia aperta un’altra buca nella notte. Mandiamo i nostri figli a scuola nella convinzione che anche tutti i loro compagni di classe siano vaccinati. Saliamo su un treno regionale certi che se una banda di teppisti proverà a metterlo a ferro a fuoco arriveranno le forze dell’ordine a fermarli. Siamo pronti a scommettere che un assassino in fuga, con i mezzi e le tecnologie di cui disponiamo, sarà arrestato nel giro di poche ore.
Qualche volta siamo smentiti in queste nostre certezze, e lo accettiamo. Ma se siamo smentiti troppe volte gli effetti possono essere molto gravi. È probabile che il senso di ingiustizia che sembra pervadere l’Italia di oggi, e la contestazione di ogni autorità che ne deriva, abbiano qualcosa a che fare con questa insicurezza: la paura che il sistema non funzioni più, e che siamo tutti esposti ai suoi fallimenti. Bisognerebbe dunque dare più importanza ai tanti piccoli scricchiolii che sentiamo qua e là nel nostro vivere organizzato. Dedicare più attenzione e più risorse a rimettere le cose a posto. Chiudere qualche inutile società municipale e investire in sicurezza. Rivalutare la tecnica e la competenza (uno vale uno è un principio valido solo quando si vota, per il resto la modernità è un sistema fatto di conoscenze in cui ognuno vale per ciò che sa e sa fare). Nel frattempo che lo rifacciamo daccapo, come tutti i partiti promettono, non potremmo cominciare ad aggiustarlo, semplicemente aggiustarlo, questo nostro Paese?
Antonio Polito