Esattamente un mese fa crollava il Viadotto sul Polcevera.
Questo mese è passato tra riflessioni, proposte, progetti (più o meno gratuiti), proteste soprattutto.
Le riflessioni quali sono state?
Demolire quanto resta sì o no. Se sì come. Demolire il sotto stante contesto urbanistico e sociale sì o no. Anche qui: come?
Ricostruire come? Chi? In quanto tempo? In quale maniera? Con quale progetto e di chi?
Nel frattempo il disagio ed il lutto di chi è stato coinvolto che vede allontanarsi sempre di più una soluzione breve (come sbandierato solo 24 ore dopo: “in otto mesi il ponte nuovo...”).
Nel frattempo non si è esitato a gettare fango addosso all’Ing. Morandi reo, a parere di chi scrive, di aver progettato un audace ponte con una tecnologia ancora oggi sconosciuta ai più. E’ stato detto che Morandi aveva sbagliato il “calcolo della deformazione viscosa”. Un pover’uomo che è vissuto di ideali e di fantasie non realizzabili.. Che non aveva dimestichezza coi calcoli. Lui che fu definito da Bruno Zevi “più coraggioso di Nervi” per i suoi progetti che sfidavano le leggi statiche.. Lui che brevettò il sistema M5, di grande respiro avveniristico.
Chiaro intento di sviare le responsabilità di chi questo ponte non lo ha manutenuto ma anzi ha sfruttato fino all’inverosimile le sue capacità strutturali.
E’ del 2003 una ordinanza del P.C.M. la n. 3273 che imponeva il controllo entro 5 anni di tutte le infrastrutture.
Perché il controllo, anzi i controlli sull’intero territorio nazionale, non sono stati fatti?
Perché in Italia si continua a legiferare e puntualmente a disattendere quanto legiferato?
Ogni volta ci si sente dire, sulla pelle dei cittadini, “questo non deve accadere più”.
Oramai comunque la “palla” è passata alla politica e dunque dal pantano non se ne uscirà praticamente più.
Ora non è più l’interesse per la collettività (se mai ci sia stato): ora è l’interesse del partito di governo o della sua opposizione.
Chi scrive spera caldamente di sbagliarsi.
Su tutto quanto ciò regna l’assordante silenzio della Soprintendenza.
Italia Nostra lo ha ben specificato in una nota dell’8 settembre u.s.: “Resta poi evidente che sulla scelta dovrebbe intervenire anche quel potere dello Stato che tutela paesaggio e patrimonio storico, e cioè quella Soprintendenza che vediamo ancora silente”.
Detto tutto questo, noi formuliamo una controproposta: ma perché non recuperare ciò che rimane e ricostruire il ponte esattamente come era? Come esattamente era questo ponte in cui Genova di identificava e simbolicamente si gemellava con Brooklyn!
Chi oggi a tavolino tenta di capire le cause e le concause del disastro, non faccia finta di non avere evidente come le condizioni della vita siano cambiate rispetto alla metà degli anni ’60 e che è anche per questo motivo che la struttura si è resa labile.
Erano quelli gli anni dell’esplosione della industria automobilistica, che ha reso poi possibile l’arricchimento dei petrolieri con il conseguente – studiato – abbandono del trasporto su ferro.
E qui forse sta il punto nodale della questione.
E’ oggi inconcepibile che una città venga attraversata e sfiorata – nel senso letterale del termine – da un traffico pesante così disumano.
Quanto avvenuto fa capire come sia davvero ora di dire basta al trasporto esclusivamente su gomma, a quel tipo di trasporto su gomma.
Ricordiamo come i collaudi dei ponti si facessero, già in epoca remota, con lo stazionamento per 48 ore di automezzi contingentati. In genere camion con ghiaia. Camion, non dunque autoarticolati.
Superate le 48 ore il ponte si riteneva collaudato.
Ma abbiamo fatto il conto di ciò che è passato su quel ponte invece e su tutti i ponti o viadotti progettati in quegli anni e mai più revisionati?
Quanto pesano oggi gli autoarticolati?
L’art. 62 del C.d.S. è chiaro: la massa complessiva di un autoarticolato a 5 o + assi a pieno carico non deve superare le 44 t.
Quanto pesavano i camion (all’epoca non c’erano gli autoarticolati) nella metà degli anni 60?
Il viadotto Morandi è un’opera progettata e collaudata per sopportare carichi almeno 3-4 volte inferiori a quelli che sosteneva: “All’epoca della costruzione, era impensabile uno sviluppo del traffico su gomma come quello che poi si è avuto» (Antonino Saggio, architetto e urbanista che insegna Progettazione Architettonica e Urbana all’università La Sapienza di Roma).
Ancora: «Quando fu realizzato – osserva Saggio – il viadotto fu considerato un grandissimo successo tecnologico e progettuale. E voglio ricordare che l’uso del cemento armato e del cemento precompresso ed il brevetto Morandi permisero a un paese come l’Italia di costruire utilizzando molto meno acciaio, che aveva prezzi proibitivi. Qualunque struttura è soggetta a rottura, dipende dal carico che ci si mette sopra, in questo caso un carico che rimbalza creando continue sollecitazioni dinamiche».
E dunque noi crediamo che un cambiamento debba avvenire nel modo di pensare di noi tutti: la demolizione di questa struttura cosa comporta in termini di tempi decisionali, costi, disagi, smaltimenti e quant’altro?
La ricostruzione di un’opera così complessa cosa altro comporta oltre quanto già enumerato nella demolizione e dunque ripetuto nella ricostruzione? Attribuzione a qualcuno della ricostruzione, concorsi di idee oppure scelta di chi si è già autoproposto (amletico dilemma), scelta dei materiali da impiegare, ecc. ecc.
Le prime verifiche fatte sul ponte hanno trovato la pila n. 11 in ottime condizione e la pila n. 10 in buone condizioni.
Strutturalmente è dunque possibile il recupero: meno costi, meno disagi, meno tempo perso, meno smaltimento dei materiali di risulta.
Manteniamo in vita una testimonianza ingegneristica di tutto rispetto.
Fare un nuovo ponte non interessa nessuno eccetto chi ci vuole lucrare.
Cambiamo però la tipologia del traffico merci. C’è la alternativa che sta sotto ai nostri occhi: la ferrovia.